Visualizzazione post con etichetta Interludio Tao. Mostra tutti i post
Visualizzazione post con etichetta Interludio Tao. Mostra tutti i post

domenica 20 luglio 2014

1000 Tao: conclusione del Tao



Nei 1001 post di questo blog si è tentato un esempio di descrizione della complessità dei sistemi e processi multi-livello che in questo secolo porteranno un radicale cambiamento distruttivo e irreversibile dell'ecosistema globale, qui identificato con il mito del KaliYuga.

Le due linee guida di discorso sono rappresentate da Processi Dinamici Globali - GDPs - la descrizione dei processi fisici-chimici-biologici-sociali-mentali e ambientali coinvolti a partire dai livelli gerarchici delle scienze naturali e dei domini di conoscenza ai livelli logici di conoscenza della conoscenza - e da Struttura che Connette, basata prevalentemente sulla vastità di idee sviluppate nell'ambito sistemico-cibernetico-ambientale da Gregory Bateson, successivamente proseguita nell'ambito delle neuroscienze e delle scienze della cognizione da Francisco J. Varela e Humberto Maturana, ed infine confluita nell'ambito dell'attuale scienza della complessità grazie ai contributi di Edgar Morin.

All'interno di questi due discorsi - tra loro interallacciati - si trovano collegate le linee di Tao, basata sugli 81 capitoli del Tao Teh Ching, quella di Tao Sincronico, basata sull'insieme di descrizione dei 78+1 simboli delle carte dei Tarocchi, Interludio Tao e, a partire da un determinato punto, quella di Tao Livello 3 e oltre, collegata alla due linee guida principali per le descrizioni in ambiti superiori al livello logico 2 della complessità.

L'evoluzione del KaliYuga reale - non mitologico - nei prossimi decenni è naturalmente imprevedibile, sia perché interessa un insieme di sistemi tra i più complessi conosciuti, sia perché fenomeni e condizioni mai avvenuti in precedenza diventeranno effettivi.

Benché tutto lasci pensare che l'ecosistema globale sarà distrutto o radicalmente trasformato è possibile che, in un sistema altamente complesso di questo tipo, scelte ed azioni rilevanti, diverse da quelle attuali e del passato, possano portare ad altri tipi di evoluzione.


Nota (forse superflua) per un eventuale lettore:
questo sito ha una struttura a blog; come tale è un LIFO - last in first out/first in last out. Per chi è interessato a seguire il racconto inizia nel primo post, il più vecchio, e si conclude nell'ultimo post, il più recente.


L'attimo prima era presente, quello successivo se n'è andato.
Un istante siamo qui, quello dopo ce ne siamo andati.

E per questo minuscolo istante, quanto chiasso facciamo - quanta violenza, quanta ambizione, quante lotte, conflitti, rabbia, odio.
Solo per questo minuscolo attimo!

Stai solo aspettando il treno, in una sala d'attesa, e fai tanto baccano: lotti, ferisci gli altri, cerchi di possedere, di fare il capo, di dominare
- tutte trame politiche.

E alla fine il treno arriva e te ne vai per sempre.


La Via del cielo aiuta, non fa danni;
la Via del saggio agisce senza lotta.

© Elena Cinguino Illustrations

sabato 19 luglio 2014

un Tao dopo l'altro, il Tao se ne va



Un giorno dopo l'altro
il tempo se ne va
le strade sempre uguali,
le stesse case.
Un giorno dopo l'altro
e tutto e' come prima
un passo dopo l'altro,
la stessa vita.
E gli occhi intorno cercano
quell'avvenire che avevano sognato
ma i sogni sono ancora sogni
e l'avvenire e' ormai quasi passato.
Un giorno dopo l'altro
la vita se ne va
domani sarà un giorno uguale a ieri.
La nave ha già lasciato il porto
e dalla riva sembra un punto lontano
qualcuno anche questa sera
torna deluso a casa piano piano.
Un giorno dopo l'altro
la vita se ne va
e la speranza ormai e' un'abitudine.

cimitero di Ricaldone, Alessandria

giovedì 17 luglio 2014

il Luogo del Tao


Sì, passeremo tutti, passerà tutto. Nulla resterà del fatto che alcuni furono santi e altri portatori di ghette.
Tutto quello che ho pensato, tutto quello che ho sognato, tutto quello che ho fatto e non ho fatto: tutto se ne andrà, come fiammiferi usati.

Soltanto l'idea raggiunge, senza sciuparsi, la conoscenza della realtà.


http://blog.libero.it/Turbamenti/view.php?reset=1&id=Turbamenti

lunedì 14 luglio 2014

l'ultima parola sul Tao


Bill Harford: Alice, cosa pensi che dobbiamo fare?
Alice: Che cosa dobbiamo fare? Che cosa penso io, non lo so. Penso che prima dobbiamo ringraziare il destino. Ringraziarlo per averci fatto uscire senza danno da tutte le nostre avventure. Sia da quelle vere che da quelle solo sognate.
B.: Sei sicura, senza danno?
A.: Se sono sicura? Io lo sono solo tanto quanto sono sicura che la realtà di una sola notte, senza contare quella di un’intera vita, corrisponde alla verità.
B.: E nessun sogno è mai soltanto sogno.
A.: L’importante è che ora siamo svegli. E spero tanto che lo resteremo a lungo.
B.: Per sempre.
A.: Per sempre?
B.: Per sempre.
A.: No, non usiamo quella parola. Mi spaventa. Ma io ti voglio molto bene. E sai? C’è una cosa molto importante che noi dobbiamo fare prima possibile.
B.: Cosa?
A.: Scopare.




"C'è inoltre un romanzo di Arthur Schnitzler, Doppio sogno, che vorrei fare ma su cui non ho ancora cominciato a lavorare"


giovedì 10 luglio 2014

il Tao della fisica: Epilogo


Le filosofie religiose orientali si interessano della conoscenza mistica atemporale che sta al di là del ragionamento e che non può essere adeguatamente espressa con parole. Il rapporto che questa conoscenza ha con la fisica moderna è solo uno dei suoi molteplici aspetti e, come tutti gli altri, non può essere dimostrato in maniera definitiva, ma deve essere esperito in un modo intuitivo diretto. Pertanto spero di essere riuscito, in una certa misura, non a dare una rigorosa dimostrazione, ma, piuttosto, a offrire al lettore una opportunità di rivivere di quando in quando una esperienza che è diventata per me fonte di continua gioia e ispirazione: l'esperienza che ci fa capire come le teorie e i modelli principali della fisica moderna portano a una visione del mondo intimamente coerente e in perfetta armonia con le concezioni del misticismo orientale.
Per coloro che hanno percepito questa armonia, l'importanza della corrispondenza tra la concezione del mondo dei fisici e quella dei mistici è fuori discussione. La domanda interessante da porci, allora, non è se questa corrispondenza esiste, ma perché esiste; e, inoltre, che significato ha.
Nel tentativo di comprendere il mistero della Vita, l'uomo ha seguito molti approcci differenti. Tra questi, vi sono la via dello scienziato e quella del mistico, ma ne esistono molte altre; la via dei poeti, dei bambini, dei pagliacci, degli sciamani, per nominarne solo alcune. Queste vie hanno prodotto descrizioni differenti del mondo, sia verbali sia non verbali, che mettono in rilievo aspetti diversi. Tutte sono valide e utili nel contesto nel quale sono sorte. Tutte quante, però, sono solo descrizioni, o rappresentazioni, della realtà e sono quindi limitate: nessuna riesce a dare un quadro completo del mondo.
La concezione meccanicistica del mondo della fisica classica è utile per descrivere il tipo di fenomeni fisici che incontriamo nella vita di ogni giorno e quindi può servire quando si ha a che fare con il nostro ambiente quotidiano; inoltre si è dimostrata estremamente fruttuosa come base per la tecnologia. Tuttavia, essa è inadeguata per descrivere i fenomeni fisici in campo subatomico. Del tutto opposta alla concezione meccanicistica del mondo è quella dei mistici, che può essere compendiata nella parola "organicismo", in quanto considera tutti i fenomeni nell'universo come parti integranti di un tutto inseparabile e armonioso. Questa visione del mondo emerge nelle tradizioni mistiche dagli stati di coscienza meditativi. Nella loro descrizione del mondo, i mistici usano concetti tratti da queste esperienze non ordinarie che, in generale, non sono adatti per una descrizione scientifica dei fenomeni macroscopici. La concezione del mondo organicistica non è vantaggiosa quando si tratta di costruire macchine, e nemmeno per affrontare i problemi tecnici in un mondo sovrappopolato.
Nella vita di tutti i giorni, allora, sia la concezione meccanicistica sia quella organicistica dell'universo sono valide e utili: l'una per la scienza e la tecnologia, l'altra per una vita
spirituale equilibrata e compiuta. Al di là delle dimensioni del nostro ambiente quotidiano, tuttavia, i concetti meccanicistici perdono la loro validità e devono essere sostituiti da concetti organicistici che sono molto simili a quelli usati dai mistici. Questa è l'esperienza essenziale della fisica moderna che ha costituito l'argomento della nostra discussione. La fisica del Novecento ha mostrato che i concetti della visione organicistica del mondo, sebbene di scarso valore per la scienza e per la tecnologia su scala umana, diventano estremamente utili a livello atomico e subatomico. La concezione organicistica, perciò, sembra essere più fondamentale di quella meccanicistica. La fisica classica, che è basata su quest'ultima, può essere ricavata dalla meccanica quantistica, la quale comprende la prima, mentre non è possibile il contrario. Ciò sembra dare una prima indicazione del perché potremmo aspettarci che le concezioni del mondo della fisica moderna e del misticismo orientale siano simili. Entrambe si manifestano quando l'uomo indaga sulla natura essenziale delle cose e scopre una realtà diversa dietro la superficiale apparenza meccanicistica della vita quotidiana: in fisica, nella realtà più profonda della materia; nel misticismo, nella realtà più profonda della coscienza.
Le corrispondenze tra le concezioni dei fisici e quelle dei mistici diventano ancora più plausibili quando ricordiamo le altre somiglianze che esistono, nonostante la diversità delle strade seguite. Anzitutto, il loro metodo è interamente empirico: i fisici traggono la loro conoscenza da esperimenti; i mistici da intuizioni legate alla meditazione. Entrambe sono osservazioni, e in entrambi i campi queste osservazioni sono riconosciute come l'unica fonte di conoscenza. L'oggetto dell'osservazione è naturalmente molto diverso nei due casi. Il mistico guarda dentro la sua coscienza e la esplora ai suoi vari livelli, che comprendono il corpo come manifestazione fisica della mente. L'esperienza del proprio corpo è infatti messa in rilievo in molte tradizioni orientali ed è spesso vista come la chiave dell'esperienza mistica del mondo. Quando stiamo bene in salute, non abbiamo la sensazione di nessuna parte specifica del nostro corpo, ma siamo consapevoli di esso come di un tutto integrato, e questa consapevolezza genera una sensazione di benessere e di felicità. Nello stesso modo, il mistico è consapevole della totalità del cosmo intero, che viene sentito come una estensione del corpo. Per usare le parole del Lama Govinda:

«Per l'uomo illuminato... la cui coscienza abbraccia l'universo, l'universo diventa il suo "corpo" mentre il suo corpo fisico diventa una manifestazione della Mente Universale, la sua visione interiore diventa espressione della sua più alta realtà e la sua parola espressione della verità eterna e del potere mantrico ».'
Al contrario del mistico, il fisico inizia la sua indagine sull'essenza delle cose studiando il mondo materiale. Penetrando negli strati sempre più profondi della materia, egli è diventato consapevole della fondamentale unità di tutte le cose e di tutti gli eventi. Inoltre ha anche imparato che egli stesso e la sua coscienza sono parte integrante di questa unità. Il mistico e il fisico giungono così alla stessa conclusione: il primo partendo dall'interiorità, il secondo dal mondo esterno. L'armonia tra le loro concezioni conferma l'antica saggezza indiana secondo cui Brahman, la realtà esterna ultima, è identica a Ātman, la realtà interna.
Una ulteriore somiglianza tra la via del fisico e quella del mistico è il fatto che le loro osservazioni avvengono in campi che sono inaccessibili ai sensi ordinari: per la fisica moderna, il campo del mondo atomico e subatomico; per il misticismo, gli stati non ordinari di coscienza nei quali il mondo dei sensi viene trasceso. I mistici parlano spesso delle loro esperienze di dimensioni superiori nelle quali le impressioni originatesi in centri diversi di coscienza sono integrate in un tutto armonioso. Una situazione analoga esiste nella fisica moderna dove è stato elaborato un formalismo «spaziotempo» quadridimensionale che unifica concetti e osservazioni che nell'ordinario mondo tridimensionale appartengono a categorie diverse. In entrambi i campi, le esperienze pluridimensionali trascendono il mondo sensoriale e è perciò praticamente impossibile esprimerle nel linguaggio ordinario.
Constatiamo che le vie del fisico moderno e del mistico orientale, che a prima vista sembrano totalmente prive di correlazioni, hanno, in effetti, molte cose in comune. Perciò, non dovrebbe sorprendere troppo che esistano corrispondenze impressionanti nelle loro descrizioni del mondo. Quando queste corrispondenze tra la scienza occidentale e il misticismo orientale saranno accettate, sorgeranno moltissime domande sulle loro implicazioni. La scienza moderna, con tutti i suoi raffinati macchinari, non sta semplicemente riscoprendo la sapienza antica, nota ai saggi orientali da migliaia di anni? I fisici non dovrebbero quindi abbandonare il metodo scientifico e cominciare a meditare? Oppure, può esserci una influenza reciproca tra scienza e misticismo, o forse persino una sintesi?
Ritengo che a tutte queste domande si debba dare una risposta negativa, in quanto scienza e misticismo sono a mio giudizio due manifestazioni complementari della mente umana, delle sue facoltà razionali e intuitive. Il fisico moderno fa esperienza del mondo attraverso una specializzazione estrema della mente razionale; il mistico attraverso una specializzazione estrema della mente intuitiva. Le due impostazioni sono completamente differenti e comportano ben più che specifiche concezioni del mondo fisico. Tuttavia, esse sono complementari, come abbiamo imparato a dire in fisica. Nessuna delle due è compresa nell'altra, né può venire ridotta all'altra, ma entrambe sono necessarie e si completano a vicenda per una più piena comprensione del mondo. Per parafrasare un vecchio detto cinese, i mistici comprendono le radici del Tao ma non i suoi rami; gli scienziati ne conoscono i rami ma non le radici.
La scienza non ha bisogno del misticismo e il misticismo non ha bisogno della scienza; ma l'uomo ha bisogno dell'uno e dell'altra. L'esperienza mistica è necessaria per comprendere la natura più profonda delle cose, e la scienza è essenziale per la vita moderna. Ciò che ci serve, quindi, non è una sintesi ma un'interazione dinamica tra intuizione mistica e analisi scientifica.
Finora, questa esigenza non è stata soddisfatta nella nostra società. Il nostro atteggiamento è ancora troppo yang – per usare di nuovo un termine cinese –, troppo razionale, maschile e aggressivo. Gli scienziati stessi ne sono un tipico esempio. Sebbene le loro teorie li stiano portando a una concezione del mondo che è simile a quella dei mistici, è sorprendente quanto poco ciò abbia influito sugli atteggiamenti della maggior parte degli scienziati. Nel misticismo, d'altra parte, la conoscenza non può essere separata da un certo modo di vivere che ne diventa la manifestazione vivente. Raggiungere la conoscenza mistica significa subire una trasformazione; si potrebbe persino dire che la conoscenza è la trasformazione. La conoscenza scientifica, invece, può spesso rimanere astratta e teorica. Così la maggior parte dei fisici di oggi non sembrano rendersi conto delle implicazioni filosofiche, culturali e spirituali delle loro teorie. Molti di loro sostengono attivamente una società che è ancora basata su una concezione del mondo meccanicistica e frammentata, senza vedere che la scienza punta oltre tale concezione, verso una unità dell'universo che includa non solo il nostro ambiente naturale ma anche i nostri simili.
Io credo che la concezione del mondo implicita nella fisica moderna sia incompatibile con la nostra attuale società, la quale non riflette l'armonioso interrelarsi delle cose che osserviamo in natura. Per raggiungere un tale stato di equilibrio dinamico sarà necessaria una struttura economica e sociale radicalmente differente: una rivoluzione culturale nel vero senso della parola. La sopravvivenza della nostra intera civiltà può dipendere dalla nostra capacità di effettuare un simile cambiamento. Essa dipenderà, in definitiva, dalla nostra capacità di assumere alcuni degli atteggiamenti yin del misticismo orientale, per esperire la globalità della natura e attingere l'arte di vivere in armonia con essa.













il Tao della fisica
image by hanciong

martedì 8 luglio 2014

la fine del Tao è l'inizio del Tao


FOLCO: Allora, Babbo, hai proprio accettato di morire?
TIZIANO: Vedi, questa di “morire” è una cosa che vorrei evitare. Mi piace molto di più l'espressione indiana, che conosci come me, “lasciare il corpo”. Infatti, il mio sogno è di scomparire come se non esistesse questo momento del distacco. L'ultimo atto della vita, che è quello che si chiama morte, non mi preoccupa perché mi ci sono preparato. Ci ho pensato. Ora, non dico che sarebbe la stessa cosa alla tua età. Ma alla mia! Ho sessantasei anni, ho fatto tutto quel che volevo fare, ho vissuto intensissimamente, per cui non ho alcun rimpianto.
Non ho da dire “Ah, mi ci vorrebbe ancora tempo per fare questo!” E poi non mi preoccupo grazie alle due o tre cose, secondo me fondamentali, che tutti i grandi e i saggi del passato avevano ben capito.
Che cos'è che ci fa così spavento della morte?
Quello che ci fa paura, che ci congela davanti a quel momento è l'idea che scomparirà in quell'attimo tutto quello a cui noi siamo tanto attaccati. Prima di tutto il corpo. Del corpo ne abbiamo fatto un'ossessione. Tu pensa: uno cresce con questo corpo, ci si identifica. Guarda te, sei giovane, sei forte, pieno di muscoli. Oh, ero così anch'io! Ogni giorno correvo dei chilometri per tenermi in forma, facevo ginnastica, avevo delle gambe dritte, avevo i baffi e la testa piena di capelli corvini. Ero un bel ragazzo. Uno dice “TIZIANO Terzani” e pensa a quel corpo lì.
Tutto da ridere! Guardami ora. Pelle e ossa, magrissimo, le gambe gonfie, la pancia come un pallone. Mi si è rovesciata la geometria del corpo. Prima uno ha le spalle larghe e la vita stretta; ora ho delle spalline strette strette e una vita enorme. Allora non posso essere attaccato a questo corpo. E poi, quale corpo? Un corpo che cambia tutti i giorni, che perde i capelli, che si azzoppa, che si acciacca, che viene tagliato a pezzi dal chirurgo?
Il corpo non siamo noi. Allora cosa siamo?
Crediamo di essere tutte le cose che ci preoccupa di perdere morendo. Con l'identità – giornalista, avvocato, direttore di banca – ti ci sei identificato e l'idea che tutto questo scompaia, che tu non sia più il grande giornalista, il bravo direttore di banca, che la morte ti porti via tutto questo ti sconvolge.
Tu possiedi la bicicletta, l'automobile, un bel quadro che hai comprato con i risparmi di tutta una vita, un campo, una casetta al mare. E tua E ora muori e la perdi. La ragione per la quale si ha tanta paura della morte è che con quella bisogna rinunciare a tutto quel che ci stava tanto a cuore, proprietà, desideri, identità. Io l'ho già fatto. Negli ultimi anni non ho fatto che buttare a mare tutto questo e non c'è più nulla a cui sono legato.
Perché ovviamente tu non sei il tuo nome, tu non sei la tua professione, non sei la casetta al mare che possiedi. E se impari a morire vivendo, come hanno ben insegnato i saggi del passato – i sufi, i greci, i nostri amati rishi dell'Himalaya – allora ti abitui a non riconoscerti in queste cose, a riconoscerne il valore estremamente limitato, transitorio, ridicolo, impermanente. Se la casa che ti sei comperato al mare un giorno -vrumm! viene portata via dalla marea; se un figlio, uno come te che sei stato mio per così tanto tempo e a cui ho dedicato pensieri, a volte sofferenze e angosce, esce di casa, gli casca un tegolo in testa e -vrumm, finito! allora capisci che non è possibile che tu sia quelle cose che scompaiono così semplicemente.
E se, vivendo, incominci a capire che non sei quelle cose, allora piano piano te ne stacchi, le abbandoni. Abbandoni anche le cose che ti paiono le più care, come l'amore che io ho per tua madre, Io ho amato tua madre per i quarantasette anni in cui siamo stati assieme e quando dico che me ne stacco non voglio dire che non la amo più, ma che questo amore non è più una schiavitù; che non sono più dipendente da questo amore; che sono, anche da questo, distaccato. Questo amore è parte della mia vita, ma io non sono quell'amore.
Sono tante altre cose... o forse nulla. Ma non sono quella cosa lì. E l'idea che morendo perdo quell'amore, perdo questa casa all'Orsigna, perdo te e la Saskia, perdo la mia identità, non mi preoccupa più, non mi fa più assolutamente paura, perché mi ci sono abituato. E qui, l'Himalaya, la solitudine lassù, la natura, la fortuna di questo malanno che mi ha dato l'occasione di riflettere su tutto questo è stata una grande maestra.
L'altra cosa che mi pare fondamentale nella vita di un uomo che cresce e che matura, come spero che in qualche modo mi sia successo, è il rapporto con i desideri. I desideri sono la nostra grande molla. Se Colombo non avesse desiderato di trovare una nuova strada per le Indie non avrebbe scoperto l'America. Tutto il progresso, se lo vuoi chiamare così, o il regresso, tutta la civilizzazione o la decivilizzazione dell'uomo è dovuta al desiderio. Desiderio di ogni tipo, a partire dal più semplice, quello carnale, quello di possedere la carne di un altro.
Il desiderio è una grande molla, non lo nego. È importante e ha determinato la storia dell'umanità. Ma se tu cominci a guardare bene, di nuovo, cosa sono questi desideri, questi desideri dai quali non sfuggi mai? Specie oggi, in questa nostra società che ci spinge solo a desiderare e fra i desideri a scegliere solo i più banali, quelli materiali, in altre parole quelli del supermercato. Il desiderio di quelle scelte lì è inutile, è banale, è irrisorio.
Il vero desiderio, se uno ne vuole uno, è quello di essere se stessi. L'unica cosa che uno può desiderare è di non avere più scelte, perché la scelta vera non è quella fra due dentifrici, fra due donne, fra due macchine. La scelta vera è quella di essere te stesso. Se ti abitui o fai degli esercizi, se rifletti, rifletti! vedi che quei desideri sono una forma di schiavitù. Perché più tu desideri e più limitazioni ti crei. Desideri una cosa al punto che non pensi ad altro, non fai altro, diventi schiavo di quel desiderio.
Allora tu puoi, nell'età matura, più adulta, cominciare a vedere tutto questo ...ride... e metterti a ridere dei desideri che hai, a ridere dei desideri che hai avuto, a ridere nel vedere che questi desideri non servono a niente, che sono effimeri come tutto il resto che è la vita. Così cominci a imparare a toglierteli, a toglierli di mezzo. Compreso quel desiderio ultimo, che tutti hanno, della longevità. Uno dice “Va bene, non voglio più soldi, non voglio più fama, non voglio più comprare niente; ma voglio almeno una pillola che mi fa vivere altri dieci anni!”
Anche questo desiderio io non l'ho più, proprio non l'ho più.
Sono fortunato. Perché gli anni di solitudine in quella casetta nell'Himalaya mi hanno fatto vedere che non avevo niente da desiderare. Avevo bisogno di un po' d'acqua per bere ed era lì, nella fonte dove bevevano gli animali. Mangiavo un po' di riso e qualche verdura cotta sul fuoco. Quali altri desideri potevo avere? Non quello di andare al cinema a vedere l'ultimo film. Che me ne importa?! Cosa cambia nella mia vita? Niente a questo punto, niente. Perché quella che ora mi sta davanti è forse la cosa più strana, curiosa, nuova che mi sia mai capitata.
Per questo dico che non ho più voglia di stare in questa vita, perché questa vita non mi incuriosisce più. L'ho vista di fuori e di dentro, l'ho vista da ogni suo lato e i desideri che mi dovrebbe suscitare non mi interessano più.
Allora la morte diventa davvero...ride... l'unica cosa nuova che mi può succedere, perché questa non l'ho mai vista, non l'ho mai vissuta. L'ho solo vista negli altri.
Può darsi che non sia niente, che sia come l'addormentarsi la sera. Perché in verità noi moriamo ogni sera, no? Quella coscienza dell'uomo sveglio che lo fa, appunto, identificare con il suo corpo e con il suo nome, che lo fa desiderare, che lo fa telefonare e andare a un appuntamento a pranzo, nell'attimo in cui ti addormenti — puff! scompare.
Pur nel sonno in qualche modo rimanendo, perché sogni.
Ma chi è il sognatore?
Chi è il testimone silenzioso del tuo sogno?
Be', forse nella morte avviene qualcosa di simile al sonno. O forse non avviene niente. Ma ti assicuro che mi avvicino a questo appuntamento non come a un incontro con una signora vestita di nero, con una falce che miete, che è sempre stata una visione dell'orrore. Mi avvicino a questo appuntamento di quiete, secondo me, a cuor leggero, come davvero non l'ho mai avuto prima. E forse lo debbo proprio alla combinazione di fatti che ti ho spiegato: quello di avere un po' imparato a morire prima di morire, quello di aver rinunciato ai desideri, e quello di aver succhiato dal terreno sacro dell'India la sensazione che l'India ti dà: che è nata, è morta, è nata e morta tanta gente; e che quest'esperienza del nascere, vivere e morire è quella più comune agli uomini.
Perché il morire ci deve far così paura? E la cosa che hanno fatto tutti! Miliardi e miliardi e miliardi di uomini, gli assiro-babilonesi, gli ottentotti, tutti ci sono passati. E quando tocca a noi, ah! siamo persi.
Ma come?! L'hanno fatto tutti.
Se ci pensi bene, questa è una bella riflessione che molti hanno fatto ovviamente: la terra sulla quale viviamo in verità è un grande cimitero. Un grande, immenso cimitero pieno di tutto quello che è stato. Se scavassimo, troveremmo dovunque ossa ormai ridotte in polvere, resti di vita. Ti immagini i miliardi di miliardi di miliardi di esseri che sono morti su questa terra? Sono tutti lì! Noi camminiamo continuamente su un enorme cimitero. È strano, perché i cimiteri come noi li concepiamo sono luoghi di dolore, di sofferenza, di pianto, circondati da cipressi neri. Mentre in verità il grande cimitero della terra è bellissimo, perché è la natura. Ci crescono sopra i fiori, ci corrono sopra le formiche, gli elefanti.
Ride.
Se la vedi così e torni a far parte di tutto questo, forse quel che resta di te è quella vita indivisibile, quella forza, quella intelligenza a cui puoi mettere una barba e chiamarla Dio, ma che è qualcosa che la nostra mente non riesce a capire e che forse è la grande mente che tiene tutto assieme.
Che cosa tiene tutto assieme?
Allora vado a questo appuntamento – perché tale lo sento e mi dispiacerebbe mancarlo, perché è come se mi fossi già vestito a festa – a cuor leggero e con una certa quasi giornalistica curiosità. Io che ormai ho smesso da tempo di fare del giornalismo sento che ho una curiosità che chiamo giornalistica per sorridere, ma che è la curiosità umana di “Che cos'è questa cosa?”
La si prova nella vita quando muore il padre. Io ricordo che, quando morì il mio, quello che mi colpì era che ora ero in prima fila io. Sai, alla guerra c'è sempre uno che è avanti a te, c'è una prima linea, come nella Prima guerra mondiale, una prima trincea. E morto tuo padre non c'è più quella trincea, tocca a te.
Be', ora tocca proprio a me. E quando io morirò ti sentirai tu in prima trincea. Ma intanto tu sei venuto a tenermi per mano e questo ci dà l'occasione di parlare del viaggio di quel ragazzino, nato in un letto in via Pisana, un quartiere popolare di Firenze, che si ritrova nelle grandi storie del suo tempo – la guerra in Vietnam, la Cina, la caduta dell'impero sovietico – poi va sull'Himalaya, e adesso è qui, in una sua piccola Himalaya, ad aspettare questa ora secondo me piacevole.
Allora questa è la fine, ma è anche l'inizio di una storia che è la mia vita e di cui mi piacerebbe ancora parlare con te per vedere insieme se, tutto sommato, c'è un senso.

domenica 6 luglio 2014

la fine del Tao e il Tao delle meraviglie


Perché il sole splende ancora?
Perché gli uccelli continuano a cantare?
Forse non lo sanno
che il mondo è finito?


The End of the World


1. Il paese delle meraviglie

Un ascensore - Silenzio - Donne grasse.

L'ascensore saliva con estrema lentezza. Presumo che salisse, cioè. Ma non ne sono affatto sicuro. Era tanto lento da farmi perdere il senso della direzione. Chissà, forse scendeva, o non si muoveva neanche. Nelle circostanze in cui mi trovavo era logico immaginare che stesse salendo. Era solo una supposizione, però. Del tutto priva di fondamento. Magari ero salito di tredici piani e poi sceso di tre, o avevo fatto il giro del mondo ed ero tornato al punto di partenza. Chi poteva dirlo?

Quell'ascensore non aveva nulla in comune col rudimentale arnese installato nel mio condominio, una semplice variante di un secchio da pozzo. I due congegni erano talmente diversi che mi era difficile pensare che fossero stati concepiti per lo stesso fine, che avessero la stessa funzione e venissero chiamati con lo stesso nome. Nella loro categoria, erano praticamente agli antipodi.

Prima di tutto per la grandezza. L'ascensore in cui mi trovavo avrebbe potuto fungere da ufficio, tanto era ampio. C'era posto per una scrivania, degli schedari, un armadio, magari un angolo cottura, e sarebbe ancora avanzato dello spazio. Volendo ci si potevano far entrare pure tre cammelli e una palma di media grandezza. Per non parlare della pulizia! Era lustro come una cassa da morto nuova. Sulle pareti e sul soffitto, in lucente acciaio inossidabile, non una macchia, non un'ombra, e il pavimento era coperto da una folta moquette verde muschio. Inoltre era incredibilmente silenzioso. Quando vi ero entrato le porte si erano richiuse adagio senza far rumore - alla lettera, senza il minimo fruscio - dopodiché non avevo udito più nulla. Al punto che non capivo nemmeno se la cabina si stesse muovendo o no. I fiumi profondi sono lenti e placidi.

Altra cosa, mancava la maggior parte dei dispositivi di cui normalmente sono provvisti gli ascensori. Tanto per cominciare, non vedevo il pannello dei comandi. Introvabili i pulsanti per scegliere il piano, aprire e chiudere le porte, azionare l'arresto d'emergenza. Insomma non c'era niente. Il che mi metteva estremamente a disagio. Perché oltre ai pulsanti mancavano anche gli indicatori di posizione, la targa con il limite di carico, le norme di sicurezza e il nome del fabbricante. L'uscita d'emergenza non si capiva dove fosse. Un vero e proprio sarcofago. Assurdo che un ascensore del genere avesse ottenuto il certificato di conformità dai vigili del fuoco. Anche gli ascensori, come ogni cosa, devono sottostare a dei precisi criteri.

Osservando quelle mute pareti in acciaio inossidabile, mi tornarono in mente le leggendarie imprese del mago Houdini, che avevo visto da bambino in un film. Legato con parecchi giri di corda, si faceva mettere in un grosso baule stretto da altri giri di robusta catena e buttare giù dalle cascate del Niagara. Oppure calare con tutto l'armamentario nei ghiacci del Mare Artico. Feci un profondo sospiro, e paragonai con calma la situazione in cui mi trovavo a quella di Houdini. Non ero legato, e questo era un punto a mio favore, però ero svantaggiato dal fatto di non conoscere il trucco.

E poi altro che trucco, non sapevo nemmeno se l'ascensore si muovesse o no! Provai a schiarirmi la gola. Ne venne fuori uno strano rumore, molto diverso da quello solito. Un suono attutito, come quando si tira una zolla di terra contro un muro di cemento. Non riuscivo a credere di averlo prodotto io. Per scrupolo riprovai: stesso risultato. Rinunciai a fare altri tentativi.

Rimasi per parecchio tempo in attesa, fermo nella posizione in cui mi trovavo. Niente, le porte non si aprivano. Silenzio e immobilità, la scena sembrava una natura morta dal titolo L'uomo e l'ascensore. Cominciavo ad avere paura.

Poteva darsi che l'ascensore fosse guasto, oppure che il manovratore - supponendo che una persona con un tale incarico esistesse - si fosse completamente dimenticato che in quella cabina c'ero io. Mi era già successo altre volte che qualcuno si dimenticasse della mia esistenza. In entrambi i casi il risultato era uguale, ero chiuso in quella prigione di acciaio inossidabile. Mi concentrai e tesi l'udito: non il minimo suono. Appoggiai l'orecchio a piatto sulla parete ma non sentii nulla, tutto quel che ottenni fu di lasciare un alone bianco sul metallo. Probabilmente quella scatola era stata costruita in una lega speciale in grado di assorbire ogni suono. Allora provai a fischiettare Danny Boy, ma riuscii a emettere soltanto un rantolo che pareva quello di un cane consunto dall'asma.

Rassegnato, mi appoggiai alla parete, e tanto per ammazzare il tempo presi a contare gli spiccioli che avevo in tasca. Per una persona che esercita la mia professione, allenarsi a far passare il tempo è importante quanto per un pugile tenere in esercizio le mani stringendo delle palle di gomma. Non si tratta di un diversivo nel puro senso del termine. Le attività ripetitive sono il solo modo di riequilibrare le tendenze maldistribuite.

Comunque sia, cerco di avere sempre parecchie monete nelle tasche dei pantaloni. Nella destra metto quelle da 100 e da 500, nella sinistra quelle da 50 e da 10. Le monete da 5 e da 1 yen le lascio invece nel taschino posteriore, perché di regola non le uso. Infilai le mani in tasca e con la destra presi a contare le monete da 100 e da 500, mentre con la sinistra contavo quelle da 50 e da 10.

Chi non ha mai provato a fare quest'operazione non può nemmeno immaginare che razza di fatica sia. L'emisfero cerebrale destro e il sinistro fanno due lavori distinti, che bisogna poi mettere insieme come le due parti di un'anguria spaccata. Impossibile riuscirci senza il dovuto allenamento.

A essere sincero, non sono del tutto sicuro che i due emisferi cerebrali funzionino separatamente. Forse uno specialista in neurofisiologia darebbe un'altra spiegazione. Ma io non ho tale qualifica, e quando mi cimento in questo tipo di calcolo ho la netta impressione di usare in maniera disgiunta le due parti del mio cervello. Anche il senso di spossatezza che mi prende alla fine di questi allenamenti è qualitativamente molto diverso dalla normale stanchezza che provo dopo aver fatto dei calcoli. Così ne traggo la ragionevole conclusione che l'emisfero destro si occupa della tasca destra, quello sinistro della tasca sinistra.

Non è facile pronunciare un giudizio su se stessi, ma credo di essere propenso a dare ai fenomeni, agli eventi e agli esseri esistenti al mondo il significato che più mi conviene. Non perché sia un opportunista - d'accordo, ammetto di avere in una certa misura anche questo difetto - ma perché al mondo si verificano spesso circostanze in cui, più che trovare una soluzione giusta, interpretare le cose nella maniera più conveniente aiuta a capire la loro natura.

Supponiamo per un momento che la Terra non sia una sfera ma un gigantesco tavolino da tè: a livello di vita quotidiana quali svantaggi ne deriverebbero? Evidentemente l'esempio è paradossale, non è che si possa prendere una cosa qualunque e ricostruirla come pare e piace. Se però adottassimo la teoria del tavolino da tè, tanti problemi triviali derivanti dal fatto che la Terra è una sfera - la gravità dei corpi, il meridiano che segna il cambiamento di data, la linea dell'equatore e altre cose che non saranno mai utili a nessuno - sparirebbero, spazzati via per incanto. Quante volte le persone che hanno un'esistenza normale hanno a che fare con la linea dell'orizzonte, in vita loro?

Di conseguenza mi sforzo, nella misura del possibile, di considerare le cose dal punto di vista della convenienza. Sono persuaso che il mondo contenga moltissime possibilità. Anzi, possibilità illimitate. E la scelta fra l'una o l'altra in una certa misura spetta alle singole persone. Il mondo è un tavolino da tè formatosi per condensazione di una possibilità fra mille.

Ma torniamo al discorso di prima. Fare contemporaneamente due calcoli diversi a destra e a sinistra è un'impresa tutt'altro che semplice. Mi ci è voluto un sacco di tempo per padroneggiare la tecnica. Ma una volta che si è presa la mano - che si è capito il sistema, cioè - non la si perde più. È come andare in bicicletta, o nuotare. Però è anche necessario allenarsi. Più ci si allena, più si migliora e ci si perfeziona. È per questo che ho sempre molte monete in tasca e appena ho un po' di tempo libero mi esercito a farne la somma.

Quella volta avevo in tasca tre monete da 500 yen, diciotto da 100, sette da 50 e sedici da 10. Totale: 3810 yen. Non ebbi nessuna difficoltà a calcolarlo. Come contare le dita delle mani. Soddisfatto, mi appoggiai alla parete in acciaio inossidabile e guardai di nuovo le porte. Non accennavano ad aprirsi.

Non capivo per quale motivo restassero chiuse per tanto tempo. Dopo averci riflettuto su, ne conclusi che potevo scartare le spiegazioni banali - un guasto o una dimenticanza da parte del manovratore. Non erano realistiche. Non perché tali incidenti non possano accadere nella realtà. Al contrario, succedono in continuazione. Ma in quella realtà particolare, cioè in quello stupido e liscio ascensore, paradossalmente conveniva considerare la mancanza di contrassegni come una caratteristica. Un ascensore tanto eccentrico e perfezionato poteva dipendere da una persona distratta al punto di trascurare la manutenzione del meccanismo o far salire i visitatori e dimenticarseli dentro?

La risposta ovviamente era no. Una tale possibilità non esisteva.

Fino a un momento prima «loro» erano stati estremamente scrupolosi e attenti, addirittura pignoli. Avevano curato i minimi dettagli, procedendo tappa dopo tappa e valutando la progressione. Quando ero entrato nel palazzo, due uomini di guardia mi avevano fermato, mi avevano chiesto da chi mi stessi recando, avevano controllato la lista delle visite in programma e la mia patente, verificato la mia identità sul computer centrale, poi mi avevano perquisito con un rivelatore elettronico e infine spinto dentro a quell'ascensore. Nemmeno alla Zecca di Stato mi avrebbero sottoposto a controlli tanto minuziosi. Era inconcepibile che a quel punto le precauzioni venissero improvvisamente meno.

Restava solo una possibilità: la situazione in cui mi trovano era voluta. Non desideravano che io mi rendessi conto dei movimenti dell'ascensore. Lo manovravano così lentamente perché io non capissi se stavo salendo o scendendo. Da qualche parte doveva essere installata una telecamera a circuito chiuso. Nella portineria, all'ingresso, avevo visto una fila di schermi televisivi, molto probabilmente uno di quelli mostrava l'interno della cabina.

Per vincere la noia, pensai di scoprire dove fosse l'occhio della telecamera, poi mi dissi che non mi sarebbe stato di alcun vantaggio. Li avrei solo messi in allarme, il che forse li avrebbe indotti a manovrare l'ascensore ancora più adagio. Ne facevo volentieri a meno. Sarei solo arrivato tardi al mio appuntamento.

In conclusione decisi di restarmene tranquillo dov'ero e aspettare. Non avevo nulla da temere, né avevo ragione di sentirmi teso.

Appoggiato alla parete, le mani in tasca, ripresi a contare le monete. 3750 yen. Elementare. Ci avevo messo meno di niente.

Come, tremilasettecentocinquanta yen? No, mi sbagliavo.

A un certo punto dovevo aver commesso un errore.

Sentii i palmi delle mani imperlarsi di sudore. Negli ultimi tre anni non mi era mai successo di sbagliarmi a contare le monete che avevo in tasca. Nemmeno una volta. Brutto segno, mi piacesse o no. Dovevo recuperare subito il terreno perduto, prima che quell'infausto presagio si concretizzasse in un palese disastro.

Chiusi gli occhi e feci il vuoto nei miei due emisferi cerebrali, come se pulissi le lenti degli occhiali. Poi estrassi le mani dalle tasche, le aprii e mi asciugai i palmi sudati. Gesti ben misurati, come Henry Fonda in Ultima notte a Warlock, quando si prepara alla sparatoria. Non c'entra niente, lo so, ma vado pazzo per quel film.

Dopo essermi assicurato che le mie mani fossero ben asciutte, le infilai di nuovo in tasca. Iniziai a calcolare per la terza volta. Se la somma fosse stata uguale a una delle due precedenti tutto era a posto. Chiunque può fare uno sbaglio. La situazione particolare in cui mi trovavo mi rendeva nervoso, inoltre - devo ammetterlo - forse avevo sopravvalutato la mia memoria. E questo era stato il mio primo errore. Bastava che rifacessi il calcolo esatto e avrei risolto tutto. Ma non ne ebbi il tempo, le porte dell'ascensore si aprirono. Di colpo scivolarono ai due lati, senza preavviso, senza rumore.

Concentrato com'ero sulle monete che avevo in tasca, non me ne accorsi subito. O per la precisione, vidi che le porte si aprivano, ma per qualche secondo non afferrai il significato concreto dell'evento. Cioè che grazie all'apertura di quelle porte due spazi fino ad allora separati diventavano comunicanti. E al tempo stesso che l'ascensore su cui mi trovavo era arrivato a destinazione.

Smisi di muovere le dita dentro le tasche e guardai al di là della soglia. Vidi un corridoio, e nel corridoio una donna. Era giovane, piuttosto grassa, indossava un tailleur rosa e calzava delle scarpe rosa con il tacco alto. Il tailleur era di buona fattura, in un tessuto serico, e altrettanto serico era il viso di lei. La donna mi guardò in faccia per assicurarsi che fossi io, poi fece un cenno di assenso. Sembrava volermi dire «da questa parte». Lasciai perdere la faccenda delle monete, tirai fuori le mani di tasca e uscii dall'ascensore. Immediatamente, come se non avessero atteso altro, le porte si richiusero alle mie spalle.

Una volta nel corridoio, gettai un'occhiata in giro, ma non vidi assolutamente nulla che potesse in qualche modo indicarmi dove fossi, non il minimo indizio. Tutto quello che sapevo era che mi trovavo in una sorta di passaggio interno del palazzo, l'avrebbe capito anche un bambino.

L'edificio era incredibilmente silenzioso e ben rifinito. Come l'ascensore, era stato costruito con materiali della migliore qualità, ma nell'insieme era del tutto anonimo. Il pavimento in marmo, tirato a lucido, splendeva, e le pareti color crema avevano la stessa sfumatura delle brioche che mangio ogni mattina a colazione. Sui due lati del corridoio si susseguivano solide porte in legno, ognuna con la sua targa in metallo recante il numero della stanza, ma senza alcun ordine logico: dopo il 936 veniva il 1213, seguito dal 26. Inconcepibile, numerare le cose in quel modo assurdo. C'era qualcosa che non quadrava.

La giovane donna non parlò, si voltò verso di me per dirmi «prego, da questa parte», ma senza emettere alcun suono, soltanto le sue labbra formarono le parole. La capii perché prima di iniziare quel lavoro avevo seguito per due mesi un corso di lettura sulle labbra. Per un attimo mi domandai se non fossero le mie orecchie a farmi degli scherzi. L'ascensore non l'avevo sentito muoversi, quando mi ero schiarito la gola e avevo provato a fischiare avevo emesso suoni strani, la mia capacità di percepire i rumori doveva essersi indebolita.

Per togliermi il dubbio mi schiarii di nuovo la gola. Ne venne fuori un suono sempre attutito, ma più forte di prima, quando mi trovavo nell'ascensore. Con un senso di sollievo ritrovai fiducia nelle mie facoltà uditive. Potevo stare tranquillo, le mie orecchie non avevano nulla che non andasse. Era la ragazza che aveva qualche problema con la voce.

Avanzai dietro di lei. Il ticchettio dei suoi tacchi a spillo riecheggiava nel corridoio vuoto, come in una cava di pietra nel primo pomeriggio. I suoi polpacci inguainati nelle calze di nylon si riflettevano nel marmo.

Aveva parecchi chili di troppo. Era giovane e bella, ma grassa. Non so perché, il fatto che quella bella ragazza fosse grassa mi turbava. Camminando dietro di lei osservavo il suo collo, le sue braccia, le sue gambe. La carne le stava attaccata al corpo come neve caduta abbondante e silenziosa durante la notte.

Quando sono in compagnia di una donna giovane, bella e grassa, mi trovo sempre in uno stato confusionale. Per quale motivo non lo so neanch'io. O forse è perché ogni volta mi viene naturale figurarmi le sue abitudini alimentari. Guardandola, automaticamente me la immagino mentre mastica le foglie d'insalata messe a guarnire il piatto o raccoglie col pane la salsa alla panna, fino all'ultima goccia. Non posso impedirmelo. E quando incomincio, è come un acido che corrode il metallo: scene di lei che mangia invadono la mia testa mettendo fuori uso tutte le altre funzioni mentali.

Nel caso di una qualunque donna grassa, non ho problemi. Una cicciona ordinaria è come una nuvola che vaga nel cielo. La sua presenza non mi tocca in alcun modo. Ma se la donna oltre a essere grassa è anche giovane e bella, è tutto un altro paio di maniche. Mi sento obbligato ad assumere un atteggiamento nei suoi confronti. Perché potremmo anche finire a letto insieme, non si sa mai. Credo sia questo che crea confusione nella mia testa. E fare l'amore con una donna quando la mente non è lucida non è una cosa semplice.

Il che non vuol dire che abbia qualcosa contro le donne grasse. Provare un senso di confusione non significa detestare. Fino a oggi sono andato a letto con un certo numero di donne giovani, belle e grasse, e nel complesso non posso certo dire che siano state esperienze sgradevoli. Se uno riesce a convogliare la confusione nella direzione giusta, può arrivare a risultati magnifici, molto più brillanti del solito. È ovvio che può accadere anche il contrario: il sesso è qualcosa di estremamente delicato, non è come andare ai grandi magazzini la domenica per comprare un thermos. Inoltre due donne ugualmente belle, giovani e grasse hanno la ciccia distribuita in modo diverso; c'è un tipo di adiposità che mi spedisce nella direzione giusta, un altro che mi getta in un temporaneo smarrimento.

In questo senso, per me fare l'amore con una donna grassa è sempre una sorta di sfida. Perché ci sono tanti modi di essere grassi, come ci sono tanti modi di morire.

Questi erano i miei pensieri mentre percorrevo il corridoio dietro quella bella cicciottella. Sotto il colletto del suo elegante tailleur rosa all'ultima moda portava una sciarpa bianca. Ai lobi paffuti e graziosi delle orecchie le pendevano degli orecchini d'oro, che a ogni suo passo dondolavano in cadenza e brillavano come segnali luminosi. Considerata la sua mole, nel complesso la ragazza aveva un'andatura piuttosto leggera. E una vita relativamente sottile, graziosa, che mi piaceva molto, pur mettendo in conto la possibilità che per fare bella figura si fosse stretta in un busto o in qualche indumento del genere. Insomma, era proprio il mio tipo di grassa.

Non è per giustificarmi, ma non sono molte le donne che mi attirano. Anzi, sono piuttosto il genere d'uomo che non si lascia sedurre facilmente. Così, quando sono attratto da una donna, mi viene da chiedermi il perché. Cerco di capire se mi piaccia veramente, e in tal caso come funzioni questa attrazione, da cosa nasca e così via.

Ad ogni modo mi portai accanto a lei e mi scusai per essere otto o nove minuti in ritardo all'appuntamento.

-Non sapevo che le formalità all'ingresso sarebbero state tanto lunghe, - mi giustificai. - E poi l'ascensore era così lento... per la verità ero arrivato con dieci minuti di anticipo.

Lei annuì leggermente come per dire che capiva. Dalla sua nuca mi arrivò un sentore di acqua di colonia. Un odore che mi dava l'illusione di trovarmi in un campo di meloni in una mattina d'estate. E mi procurava una sensazione strana. Una sorta di bizzarra, assurda nostalgia, come se due ricordi diversi si sovrapponessero, in un luogo a me ignoto. A volte mi succede di provare stati d'animo di questo genere. Ma non riesco a spiegarmi il perché.

-Davvero lungo, questo corridoio, - dissi alla ragazza per avviare la conversazione. Senza smettere di camminare, lei si voltò a guardarmi. Doveva avere una ventina d'anni. Tratti regolari, la fronte ampia, una bella pelle,

-Proust, - fece fissandomi in viso. O meglio, non lo disse veramente, semplicemente le sue labbra mi dettero l'impressione di formare quella parola. Ma come prima non udii alcun suono. Neanche il rumore del suo respiro. Sembrava che mi parlasse dall'altra parte di una vetrata.

Proust?

-Marcel Proust? - le chiesi.

Lei mi guardò con espressione stupita. Poi ripeté: - Proust -. Rassegnato, tornai a mettermi dietro di lei e ripresi a seguirla, mentre cercavo tutte le parole che potevano adattarsi al movimento delle sue labbra. «Fusto», provai a dire sottovoce, «posto», «mosto» e altri vocaboli privi di nesso, l'uno dopo l'altro, senza trovarne uno convincente. Pareva che lei avesse detto proprio «Proust». Ma che nesso poteva mai esserci tra Marcel Proust e quel lungo corridoio?

Che avesse tirato fuori Proust come metafora della lunghezza? In tal caso, che modo singolare e irriverente di esprimersi! Avrei ancora capito se avesse portato a esempio il corridoio per rappresentare la lunghezza dell'opera di Proust. Fare il contrario, però, era davvero strano.

Un corridoio lungo come Marcel Proust?

Ad ogni buon conto, la seguii docilmente per quell'interminabile labirinto. Che non finiva mai, formava svolte, saliva e scendeva con brevi scale di pochi gradini. Percorremmo cinque o sei volte la lunghezza di un normale palazzo. Mi chiesi se non stessimo girando in tondo, come in un quadro di Escher. Potevamo camminare quanto volevamo, tanto la scenografia non variava. Pavimento di marmo, pareti color uovo sbattuto, porte di legno numerate a casaccio, pomi d'acciaio. Nessuna finestra. I tacchi a spillo della ragazza ticchettavano nel corridoio con lo stesso ritmo regolare, io la seguivo con le mie scarpe da ginnastica che facevano uno schiocco molle di gomma fusa. Molto più forte del solito, tanto che mi venne il dubbio che la suola stesse davvero fondendo. Era la prima volta in vita mia che camminavo sul marmo con delle scarpe da ginnastica, come potevo sapere se era il rumore normale o meno? Forse lo era per metà e per l'altra metà no, mi dissi. Perché a quel punto avevo l'impressione che ogni cosa mi venisse propinata in quella proporzione.

Quando la ragazza improvvisamente si fermò, ero talmente concentrato sul rumore delle mie scarpe che non vi feci caso e andai a sbattere col petto contro la sua schiena. Una schiena gradevolmente morbida, come una nuvola carica di pioggia. Dalla sua nuca mi arrivò l'odore d'acqua di colonia al melone di prima. A causa dell'urto lei stava per cadere in avanti, ma io fui svelto a trattenerla per le spalle.

- Mi scusi, - dissi. - Ero immerso nei miei pensieri.

La ragazza arrossi leggermente e mi guardò. Non ci avrei messo la mano sul fuoco, ma non mi parve in collera. - Tasselli, - rispose con un accenno di sorriso. Poi si raddrizzò e aggiunse: - Sela -. È chiaro che non pronunciò davvero quelle parole, le formò soltanto con le labbra.

-Tasselu? - provai a dire sottovoce fra me e me. - Sela?

-Sela, - ripeté allora lei con aria più convinta.

Poteva essere turco. Peccato che io il turco non l'avessi mai sentito in vita mia. Di conseguenza forse era un'altra cosa. A poco a poco nella mia testa la confusione cresceva, così decisi di lasciar perdere. Fine della conversazione. La mia capacità di leggere sulle labbra era ancora insufficiente. È un'operazione delicata leggere sulle labbra, mica una tecnica che si riesce a padroneggiare perfettamente in due mesi di lezioni al Centro Comunale.

La ragazza tirò fuori dalla tasca della giacca una chiave elettronica ovale e la introdusse per metà nel pomo della porta numero 728. Si sentì uno scatto e la serratura si aprì. Mirabile congegno. Ferma sulla soglia lei spinse il battente con la mano. Poi rivolta a me fece: - Somuto, sela.

Ovviamente annuii ed entrai.

2. La fine del mondo

Bestie color oro.

Con l'arrivo dell'autunno, le bestie si coprirono di un lungo mantello color oro. Oro nel puro senso della parola. Senza la minima traccia di altre tinte o sfumature, venuto al mondo in quanto tale, e in quanto tale esistente. Oro purissimo di cui, nell'intervallo fra cielo e terra, le bestie si erano ammantate.

Quando ero arrivato nella città - in primavera - il loro pelo era corto, di tanti colori. Nero, marrone, bianco, bruno-rossastro. A volte a chiazze variopinte. Rivestite di quei mantelli tutti diversi l'uno dall'altro, le bestie vagavano quietamente, come spinte dal vento, sulla terra dov'era cresciuta l'erba nuova. Erano animali tranquilli, si potrebbe quasi dire meditabondi. Perfino il loro fiato era lieve come nebbia mattutina. Mangiavano in silenzio l'erba dei prati, poi, una volta sazie, piegavano le reni, si sdraiavano a terra e facevano un breve sonno.

Passata la primavera, finita l'estate, quando la luce aveva preso una sfumatura trasparente e il primo vento autunnale increspava di piccole onde la superficie del fiume, il loro aspetto cominciò a mutare. All'inizio nel pelo spuntarono qua e là fili dorati, come germogli nati fuori stagione per qualche caso fortuito, poi i fili divennero tentacoli innumerevoli che invasero il mantello corto, fino a trasformarlo in oro splendente. La muta durò una settimana. Quasi tutte insieme, in sette giorni, le bestie divennero tutte dorate, dalla prima all'ultima. Quando il sole si alzò, il mondo si era tinto d'oro nuovo, e sulla Terra era arrivato l'autunno.

Soltanto il corno che spuntava loro in mezzo alla fronte, lungo e flessibile, era bianco. La sua pericolosa sottigliezza faceva pensare, più che a un corno, a un frammento d'osso che avesse lacerato la pelle e si fosse solidificato all'esterno. A parte il bianco del corno e l'azzurro degli occhi, le bestie erano completamente dorate. Come per provare quell'abito nuovo, scuotevano su e giù la testa, spingendo la punta del corno verso l'alto cielo autunnale. Poi entravano con le zampe nell'acqua del fiume già più fredda e allungavano il collo per mangiare le bacche rosse degli alberi.

Quando calò la notte tingendo di blu la città, salii sulla torre di guardia occidentale del muro di cinta e osservai il Guardiano dare fiato al corno per chiamare a raccolta le bestie. Una nota lunga e tre corte. Un segnale invariabile. Ogni volta che sentivo quel suono chiudevo gli occhi e lasciavo che la sua dolcezza mi pervadesse. Perché non era paragonabile a nessun altro. Come un pallido pesce trasparente, attraversava quietamente la città immersa nel buio. La sua risonanza si propagava sotto gli archi delle strade lastricate, fra i muri di pietra delle case, lungo gli argini edificati del fiume, si diffondeva in tutta la città, da un capo all'altro, come se scivolasse in una faglia di tempo invisibile contenuta nell'atmosfera.

Quando il suono del corno riecheggiava, le bestie alzavano la testa, rivolte verso memorie di tempi primordiali. Erano più di mille, e guardavano tutte nella direzione da cui proveniva il suono, prendendo la stessa posa. Alcune cessavano riverentemente di masticare le foglie di ginestra; altre, accovacciate sul selciato delle strade collegate da archi, smettevano di raspare per terra con gli zoccoli; altre ancora si svegliavano dal loro sonno nella luce del tramonto, e ognuna protendeva il capo nell'aria.

In quell'istante tutto si fermava. Solo il pelo delle bestie si muoveva, sollevato dal vento serale. Chissà a cosa pensavano in quel momento, chissà cosa vedevano. Si immobilizzavano con il collo inclinato allo stesso angolo, nella stessa direzione, lo sguardo perso nel vuoto. E tendevano le orecchie verso il suono del corno. Poi, quando infine l'ultima eco si dissolveva nella lieve oscurità, si alzavano e si mettevano in marcia verso una stessa meta, come se all'improvviso si fossero ricordate di qualcosa. L'incantesimo di un momento si rompeva, e la città risuonava del rumore di innumerevoli zoccoli. Un rumore che faceva sempre nascere nella mia mente l'immagine di infinite gocce di schiuma che salissero dal suolo e invadessero le strade, scavalcando i recinti delle case e coprendo perfino la Torre dell'Orologio.

Ma si trattava di un'illusione ottica dovuta all'oscurità. Se aprivo gli occhi la schiuma svaniva di colpo. Restava solo il rumore degli zoccoli delle bestie, la città non era cambiata. La processione scorreva come un fiume lungo le tortuose strade di pietra. Non esisteva un capobranco, un animale che guidasse gli altri. Le bestie si limitavano a seguire quel flusso silenzioso tremando un poco con le spalle, lo sguardo basso. Eppure fra una bestia e l'altra si intuiva il forte legame di una memoria segreta e indelebile, benché non si riflettesse negli occhi.

Arrivavano da nord, attraversavano il Ponte Vecchio, si univano al branco proveniente da est e procedevano insieme lungo la sponda meridionale del fiume. Poi attraversavano il quartiere industriale seguendo un canale, giravano a destra e, infilandosi in un passaggio sotto la fonderia, arrivavano ai piedi della collina occidentale. Lì, ad aspettarle sui declivi, c'erano le bestie anziane e i piccoli, che non potevano allontanarsi troppo dal cancello. A quel punto tutte insieme cambiavano direzione, proseguivano verso nord, attraversavano il ponte a ovest della città e raggiungevano il cancello.

Il Guardiano lo apriva appena vedeva arrivare le bestie. Le ante, rinforzate da spesse sbarre di ferro orizzontali, sembravano pesantissime e quasi impossibili da spostare. Alte dai quattro ai cinque metri, sul bordo superiore erano irte di innumerevoli chiodi acuminati, in modo che nessuno le scavalcasse. Una delle due restava sempre chiusa: il Guardiano apriva soltanto quella di destra. La spingeva in avanti con facilità, poi faceva uscire le bestie a gruppi. Quando l'ultima era passata, chiudeva e metteva il chiavistello.

Per quel che ne sapevo, quel cancello a ovest era l'unica uscita della città, sigillata dal muro di cinta: una lunga muraglia alta sette o otto metri che nessuno, tranne gli uccelli, poteva superare.

Sul far del giorno, di nuovo il Guardiano apriva il cancello e suonava il corno, e le bestie entravano. Quando erano tutte dentro, il cancello veniva richiuso.

-In realtà non ci sarebbe bisogno di mettere il chiavistello, - mi spiegò l'uomo. -

Chiavistello o meno, nessuno oltre a me è in grado di spingere quelle ante. Nemmeno unendo le forze di parecchie persone. Lo metto solo perché questa è la regola.

Pronunciate quelle parole, il Guardiano si tirò il berretto sugli occhi e non disse più nulla. Era un uomo grande e grosso, più di chiunque avessi mai visto in vita mia. Era così ben in carne che la camicia e la giacca parevano sul punto di strapparsi ogni volta che muoveva un muscolo. Ogni tanto, all'improvviso, chiudeva gli occhi e sprofondava in un silenzio sconfinato. Non riuscivo a capire se lo cogliesse una sorta di malinconia o se gli si bloccasse qualche funzione interna. In ogni caso, quando cadeva nel silenzio non potevo fare altro che aspettare che riprendesse consapevolezza. Quando la sua coscienza si risvegliava, apriva lentamente gli occhi, mi fissava con uno sguardo che tornava da lontano e si strofinava parecchie volte le dita sulle ginocchia, come se si sforzasse di capire la ragione della mia presenza lì.

-Perché il mattino fa uscire le bestie e la sera le fa rientrare? - gli chiesi vedendo che si rianimava.

Lui mi osservò per qualche secondo con occhi del tutto privi di emozione.

-Perché così è stato deciso, - rispose poi. - Seguo semplicemente la regola. Come il sole sorge a est e tramonta a ovest.

Il tempo che non dedicava all'apertura e alla chiusura del cancello, il Guardiano sembrava passarlo ad affilare lame. Lame di ogni sorta. Nella sua baracca aveva ammassato accette, roncole e coltelli di varie misure, e appena aveva un momento libero si metteva con impegno a strofinarli sull'apposita pietra.

Una volta affilate, le lame prendevano un innaturale bagliore bianco, come di ghiaccio, e più che riflettere la luce che ricevevano, davano l'impressione di nascondere un qualche corpo luminoso interno.

Ogni volta che guardavo la collezione dei suoi attrezzi, sulle labbra del Guardiano, che mi seguiva attentamente con lo sguardo, affiorava un sorriso soddisfatto.

-Stia attento. Basta sfiorarli per tagliarsi seriamente, - disse indicando quell'arsenale con le dita spesse come paletti di legno. - Attrezzi così mica si trovano dappertutto. Li ho fabbricati e affilati io uno per uno, con le mie mani. È il mio mestiere, un tempo facevo il fabbro. Sono tenuti con cura e ben bilanciati. Non è facile adattare il manico al peso della lama. Provi a prenderne uno in mano facendo attenzione a non tagliarsi.

Scelsi fra gli attrezzi posati sul tavolo l'ascia più piccola e provai a manovrarla due o tre volte con prudenza. Benché avessi messo poca forza nel polso, o perlomeno questa era la mia intenzione, l'ascia rispose con la prontezza di un cane ben addestrato e tagliò l'aria con un sibilo asciutto.

-Anche quella l'ho fabbricata io. Ho usato del legno di frassino vecchio di dieci anni. Ognuno ha i suoi metodi nel fabbricare le asce, io preferisco il frassino di dieci anni. Quello più giovane non va bene, e nemmeno quello troppo vecchio e spesso. Dieci anni sono il tempo giusto. È legno forte, umido, flessibile. Se ne trova di ottimo nei boschi a oriente.

-Ma cosa se ne fa di tutti questi attrezzi da taglio?

-Servono a tante cose, - disse il Guardiano. - Quando viene l'inverno, ce n'è gran bisogno. Aspetti e vedrà anche lei. Qui dura a lungo l'inverno.

Fuori dal cancello della città c'era uno spazio dove le bestie passavano la notte. Potevano bere l'acqua di un torrentello che vi scorreva. Al di là si vedevano meli a perdita d'occhio, ovunque. Frutteti che si estendevano all'infinito.

Sul lato occidentale della muraglia si trovavano tre torri di guardia alle quali si accedeva per mezzo di una scala a pioli. In cima, una semplice tettoia per ripararsi dalla pioggia e una finestra provvista di sbarre di ferro da cui si potevano vedere in basso le bestie.

- Non viene nessuno a guardarle, a parte lei, - disse il Guardiano. - Ma è normale, è appena arrivato: quando avrà vissuto qui per un po', vedrà che non le interesseranno più. Fanno tutti così. Tranne che nella prima settimana all'inizio della primavera.

In quella settimana, la gente saliva sulle torri per guardare i combattimenti fra i maschi, mi spiegò il Guardiano. Era l'epoca dell'anno in cui diventavano aggressivi, la muta del mantello invernale era appena avvenuta e le femmine ben presto avrebbero partorito. Quegli animali solitamente tanto placidi si ferivano l'uno con l'altro, a vederli in tempi normali non lo si sarebbe mai immaginato. E da tutto quel sangue che scorreva sul terreno sarebbero nate nuove vite e un nuovo ordine.

Ora era l'autunno, e le bestie se ne stavano tranquillamente accovacciate qua e là, il lungo pelo dorato splendente nella luce del tramonto. Perfettamente immobili, come statue saldamente avvitate al terreno, attendevano quiete con la testa alzata che gli ultimi raggi di sole sprofondassero nei boschi di meli. Quando alla fine il sole tramontava e la luce azzurrata della sera le copriva, abbassavano il capo, posavano il corno bianco sulla terra e chiudevano gli occhi.

Così finiva la giornata nella città.

venerdì 4 luglio 2014

ri-Omaggio al Tao senza Tempo



http://www.alessandracelletti.com/







"Sono venuto al mondo molto giovane in un tempo molto vecchio."

"Quand’ero giovane, mi dicevano: «Vedrà quando avrà 50 anni». Ho 50 anni. Ma non vedo niente."

"Non leggo mai un giornale della mia opinione: la troverei deformata."

"L’esperienza è una forma di paralisi."

"Chi sono io - Tutti vi diranno che non sono un musicista. È vero. Fin dall’inizio della mia carriera, mi sono, immediatamente, situato tra i fonometrografi. Le mie opere sono pura fonometria... nessuna idea musicale ha presieduto alla [loro] creazione... Il pensiero scientifico le domina. Del resto, a me piace di più misurare un suono che ascoltarlo. Così fonometro alla mano, opero allegramente e senza indugi. C’è qualcosa ch'io non abbia pesato e misurato? Tutto Beethoven, tutto Verdi, eccetera. È molto strano."

Omaggio al Tao: Erik Satie

Tao senza tempo

Giorgio Faletti
Asti, 25 novembre 1950 – Torino, 4 luglio 2014

mercoledì 2 luglio 2014

canti del Tao























I. 13. "mo ko kahân dhûnro bande"

O SERVANT, where dost thou seek Me?
Lo! I am beside thee.
I am neither in temple nor in mosque: I am neither in Kaaba nor in Kailash:
Neither am I in rites and ceremonies, nor in Yoga and renunciation.
If thou art a true seeker, thou shalt at once see Me: thou shalt meet Me in a moment of time.
Kabîr says, "O Sadhu! God is the breath of all breath."

O SERVO, dove Mi cerchi?
Guarda! Io sono vicino a te.
Non sono nel tempio, né nella moschea; non sono nel Kaaba nè nel Kailash;
Non sono nei riti, né nelle cerimonie; non sono nello Yoga, nella rinuncia.
Se tu sei un buon cercatore Mi vedrai immediatamente: Mi incontrerai in un attimo.
Kabir dice: "O Santo! Iddio è il respiro di ogni respiro".


I. 57. "sadho bhai, jivat hi karo asa"

O Amico! spera in Lui finché vivi; finché vivi, conosciLo; finché vivi, comprendiLo; poiché, nella vita c'è liberazione.
Se i tuoi legami non saranno spezzati mentre vivi, come potrai sperare liberazione nella morte?
E' vano sogno il credere che l'anima si unirà a Lui soltanto perché uscita dal corpo.
Se lo troveremo ora, Lo troveremo poi; se no, andremo a dimorare nel Regno della Morte.
Se ora hai l'unione anche dopo l'avrai.
Immergiti nella verità; conosci il vero Guru; abbi fede nel vero Nome.
Kabir dice: "E' lo Spirito della Ricerca che aiuta, e di questo Spirito io sono lo schiavo".

I. 58. "bago na ja re na ja"

Non andare nel giardino fiorito!
O Amico! Non andarci.
Il giardino fiorito è nella tua persona.
Siediti sui mille petali del loto e contempla la Bellezza Infinita.

I. 101. "is ghat antar bag bagice"

Dentro questo vaso d'argilla vi sono pergolati e boschetti, e dentro c'è pure il Creatore.
Dentro questo vaso vi sono i sette oceani e le innumerevoli stelle.
Vi sono la pietra di paragone e lo stimatore del gioiello. Dentro questo vaso l'Eterno risuona e la fonte sgorga.
Kabir dice: "Ascoltami, amico! Il mio Diletto Signore è lì dentro."

II. 37. "angadhiya deva"

O Signore Increato, chi Ti servirà? Ogni fedele offre il suo culto al Dio della propria creazione: ogni giorno, Egli riceve il servizio divino.
Ma nessuno cerca Lui, il Perfetto, Brahma, l'Indivisibile Signore.
Essi credono in dieci Avatar, ma lo Spirito Infinito non può assolutamente essere un Avatar, poiché l'Avatar soffre le conseguenze delle proprie azioni.
Ben altra cosa deve essere l'Altissimo. Lo Yoghi, il Sannyasi e l'Asceta ne disputano insieme. Kabir dice: "O fratello!Salvo è colui che ha visto quella radiosità d'amore".

II. 56. "dariya ki lahar dariyao hai ji"

Il fiume e le sue onde sono lo stesso flutto: dove è la differenza?
Quando l'onda si solleva, non è che acqua, e quando ricade è sempre la stessa acqua.
Dimmi, Signore, dov'è la differenza?
Forse perché si chiama onda non si deve più considerare come acqua?
Nel supremo Brahma i mondi si contano come i chicchi di un rosario: E tu quel rosario guarda con gli occhi della sapienza.

II. 20. "paramatam guru nikat virajain"

O mio cuore! Lo Spirito Eccelso, il grande Maestro è vicino a te!
Destati, oh, destati!
Gettati ai piedi dell'Amato, poiché il tuo Signore sta ritto presso al tuo capo.
Hai dormito per innumerevoli evi; e neanche stamane vuoi destarti?

II. 33. "ghar ghar dipak barai"

Lampade ardono in ogni casa, o cieco!
E tu non puoi vederle.
Un giorno, improvvisamente, i tuoi occhi si apriranno e vedrai; e i ceppi della morte cadranno da te.
Non v'è nulla da dire, o da udire; nulla da fare: è colui che, sebbene vivente, è già morto, che non più morrà.
Poiché vive nella solitudine, lo Yoghi dice che la sua casa è lontana.
Il tuo Signore è vicino, eppure ti arrampichi sul palmizio per cercarLo.
Il sacerdote di Brahma va di casa in casa ed inizia le genti alla fede.
Ahimè! la vera fonte di Vita è presso di te, e tu hai inalzata sull'altare una pietra per adorarla!
Kabir dice: " Non potrò mai esprimere quanto sia dolce il mio Signore.Yoga e recitazione di rosari, virtù e vizi sono nulla al paragone di Lui"

II. 38. "sadho, so satgur mohi bhawai"

O Fratello, il mio cuore brama quel santo Guru, che, ricolmata la coppa del vero amore, prima ne beve Egli Stesso e, poi, me l'offre.
Egli allontana il velo dai miei occhi e mi dà la vera visione di Brahma; Egli in Se Stesso rivela i mondi e mi fa udire una Musica, suonata senza strumenti; Egli mi dimostra che gioia e dolore sono una sola cosa; Egli riempie d'amore ogni espressione.
Kabir dice: "In verità non teme chi ha un tale Guru, che lo guida all'asilo di salvezza".

II. 45. "Hari ne apna ap chipaya"

Il mio Signore Si nasconde; il mio Signore Si rivela meravigliosamente; Il mio Signore mi ha circondato di avversità; il mio Signore mi ha abbattuto ogni barriera innanzi a me.
Il mio Signore mi porta parole di dolore e parole di gioia: ed Egli Stesso risana il loro contrasto.
Al mio Signore voglio offrire il corpo e la mente. Rinuncerò alla vita, ma non dimenticherò mai il mio Signore!

II. 81. "satgur soi daya kar dinha"

E' la misericordia del mio verace Guru che mi ha fatto conoscere l'ignoto.
Ho appreso da Lui a camminare senza piedi, a vedere senza occhi, a udire senza orecchi, a bere senza bocca, a volare senza ali.
Ho portato il mio amore e la mia meditazione in quella terra dove non sono, né sole, né luna, né giorno, né notte.
Senza mangiare ho gustato la dolcezza del nettare, e senza acqua ho spenta la mia sete.
Dove è corrispondenza di delizia, la gioia è perfetta.
Innanzi a chi può essere espressa quella gioia?
Kabir dice: "Il Guru è grande oltre ogni parola; e grande è la buona fortuna del discepolo".

The Songs of Kabir, tr. by Rabindranath Tagore, introduction by Evelyn Underhill, [1915]


Kabir crede nella vita, non in dio. La vita è il divino. E lasciate che vi dica: la vita con la “v” minuscola... la vita di tutti i giorni: dormire, svegliarsi, mangiare, camminare, amare. Questa vita ordinaria è il divino. Se non riesci a trovarlo in questa vita ordinaria, non lo troverai mai da nessuna parte.