martedì 8 luglio 2014

la fine del Tao è l'inizio del Tao


FOLCO: Allora, Babbo, hai proprio accettato di morire?
TIZIANO: Vedi, questa di “morire” è una cosa che vorrei evitare. Mi piace molto di più l'espressione indiana, che conosci come me, “lasciare il corpo”. Infatti, il mio sogno è di scomparire come se non esistesse questo momento del distacco. L'ultimo atto della vita, che è quello che si chiama morte, non mi preoccupa perché mi ci sono preparato. Ci ho pensato. Ora, non dico che sarebbe la stessa cosa alla tua età. Ma alla mia! Ho sessantasei anni, ho fatto tutto quel che volevo fare, ho vissuto intensissimamente, per cui non ho alcun rimpianto.
Non ho da dire “Ah, mi ci vorrebbe ancora tempo per fare questo!” E poi non mi preoccupo grazie alle due o tre cose, secondo me fondamentali, che tutti i grandi e i saggi del passato avevano ben capito.
Che cos'è che ci fa così spavento della morte?
Quello che ci fa paura, che ci congela davanti a quel momento è l'idea che scomparirà in quell'attimo tutto quello a cui noi siamo tanto attaccati. Prima di tutto il corpo. Del corpo ne abbiamo fatto un'ossessione. Tu pensa: uno cresce con questo corpo, ci si identifica. Guarda te, sei giovane, sei forte, pieno di muscoli. Oh, ero così anch'io! Ogni giorno correvo dei chilometri per tenermi in forma, facevo ginnastica, avevo delle gambe dritte, avevo i baffi e la testa piena di capelli corvini. Ero un bel ragazzo. Uno dice “TIZIANO Terzani” e pensa a quel corpo lì.
Tutto da ridere! Guardami ora. Pelle e ossa, magrissimo, le gambe gonfie, la pancia come un pallone. Mi si è rovesciata la geometria del corpo. Prima uno ha le spalle larghe e la vita stretta; ora ho delle spalline strette strette e una vita enorme. Allora non posso essere attaccato a questo corpo. E poi, quale corpo? Un corpo che cambia tutti i giorni, che perde i capelli, che si azzoppa, che si acciacca, che viene tagliato a pezzi dal chirurgo?
Il corpo non siamo noi. Allora cosa siamo?
Crediamo di essere tutte le cose che ci preoccupa di perdere morendo. Con l'identità – giornalista, avvocato, direttore di banca – ti ci sei identificato e l'idea che tutto questo scompaia, che tu non sia più il grande giornalista, il bravo direttore di banca, che la morte ti porti via tutto questo ti sconvolge.
Tu possiedi la bicicletta, l'automobile, un bel quadro che hai comprato con i risparmi di tutta una vita, un campo, una casetta al mare. E tua E ora muori e la perdi. La ragione per la quale si ha tanta paura della morte è che con quella bisogna rinunciare a tutto quel che ci stava tanto a cuore, proprietà, desideri, identità. Io l'ho già fatto. Negli ultimi anni non ho fatto che buttare a mare tutto questo e non c'è più nulla a cui sono legato.
Perché ovviamente tu non sei il tuo nome, tu non sei la tua professione, non sei la casetta al mare che possiedi. E se impari a morire vivendo, come hanno ben insegnato i saggi del passato – i sufi, i greci, i nostri amati rishi dell'Himalaya – allora ti abitui a non riconoscerti in queste cose, a riconoscerne il valore estremamente limitato, transitorio, ridicolo, impermanente. Se la casa che ti sei comperato al mare un giorno -vrumm! viene portata via dalla marea; se un figlio, uno come te che sei stato mio per così tanto tempo e a cui ho dedicato pensieri, a volte sofferenze e angosce, esce di casa, gli casca un tegolo in testa e -vrumm, finito! allora capisci che non è possibile che tu sia quelle cose che scompaiono così semplicemente.
E se, vivendo, incominci a capire che non sei quelle cose, allora piano piano te ne stacchi, le abbandoni. Abbandoni anche le cose che ti paiono le più care, come l'amore che io ho per tua madre, Io ho amato tua madre per i quarantasette anni in cui siamo stati assieme e quando dico che me ne stacco non voglio dire che non la amo più, ma che questo amore non è più una schiavitù; che non sono più dipendente da questo amore; che sono, anche da questo, distaccato. Questo amore è parte della mia vita, ma io non sono quell'amore.
Sono tante altre cose... o forse nulla. Ma non sono quella cosa lì. E l'idea che morendo perdo quell'amore, perdo questa casa all'Orsigna, perdo te e la Saskia, perdo la mia identità, non mi preoccupa più, non mi fa più assolutamente paura, perché mi ci sono abituato. E qui, l'Himalaya, la solitudine lassù, la natura, la fortuna di questo malanno che mi ha dato l'occasione di riflettere su tutto questo è stata una grande maestra.
L'altra cosa che mi pare fondamentale nella vita di un uomo che cresce e che matura, come spero che in qualche modo mi sia successo, è il rapporto con i desideri. I desideri sono la nostra grande molla. Se Colombo non avesse desiderato di trovare una nuova strada per le Indie non avrebbe scoperto l'America. Tutto il progresso, se lo vuoi chiamare così, o il regresso, tutta la civilizzazione o la decivilizzazione dell'uomo è dovuta al desiderio. Desiderio di ogni tipo, a partire dal più semplice, quello carnale, quello di possedere la carne di un altro.
Il desiderio è una grande molla, non lo nego. È importante e ha determinato la storia dell'umanità. Ma se tu cominci a guardare bene, di nuovo, cosa sono questi desideri, questi desideri dai quali non sfuggi mai? Specie oggi, in questa nostra società che ci spinge solo a desiderare e fra i desideri a scegliere solo i più banali, quelli materiali, in altre parole quelli del supermercato. Il desiderio di quelle scelte lì è inutile, è banale, è irrisorio.
Il vero desiderio, se uno ne vuole uno, è quello di essere se stessi. L'unica cosa che uno può desiderare è di non avere più scelte, perché la scelta vera non è quella fra due dentifrici, fra due donne, fra due macchine. La scelta vera è quella di essere te stesso. Se ti abitui o fai degli esercizi, se rifletti, rifletti! vedi che quei desideri sono una forma di schiavitù. Perché più tu desideri e più limitazioni ti crei. Desideri una cosa al punto che non pensi ad altro, non fai altro, diventi schiavo di quel desiderio.
Allora tu puoi, nell'età matura, più adulta, cominciare a vedere tutto questo ...ride... e metterti a ridere dei desideri che hai, a ridere dei desideri che hai avuto, a ridere nel vedere che questi desideri non servono a niente, che sono effimeri come tutto il resto che è la vita. Così cominci a imparare a toglierteli, a toglierli di mezzo. Compreso quel desiderio ultimo, che tutti hanno, della longevità. Uno dice “Va bene, non voglio più soldi, non voglio più fama, non voglio più comprare niente; ma voglio almeno una pillola che mi fa vivere altri dieci anni!”
Anche questo desiderio io non l'ho più, proprio non l'ho più.
Sono fortunato. Perché gli anni di solitudine in quella casetta nell'Himalaya mi hanno fatto vedere che non avevo niente da desiderare. Avevo bisogno di un po' d'acqua per bere ed era lì, nella fonte dove bevevano gli animali. Mangiavo un po' di riso e qualche verdura cotta sul fuoco. Quali altri desideri potevo avere? Non quello di andare al cinema a vedere l'ultimo film. Che me ne importa?! Cosa cambia nella mia vita? Niente a questo punto, niente. Perché quella che ora mi sta davanti è forse la cosa più strana, curiosa, nuova che mi sia mai capitata.
Per questo dico che non ho più voglia di stare in questa vita, perché questa vita non mi incuriosisce più. L'ho vista di fuori e di dentro, l'ho vista da ogni suo lato e i desideri che mi dovrebbe suscitare non mi interessano più.
Allora la morte diventa davvero...ride... l'unica cosa nuova che mi può succedere, perché questa non l'ho mai vista, non l'ho mai vissuta. L'ho solo vista negli altri.
Può darsi che non sia niente, che sia come l'addormentarsi la sera. Perché in verità noi moriamo ogni sera, no? Quella coscienza dell'uomo sveglio che lo fa, appunto, identificare con il suo corpo e con il suo nome, che lo fa desiderare, che lo fa telefonare e andare a un appuntamento a pranzo, nell'attimo in cui ti addormenti — puff! scompare.
Pur nel sonno in qualche modo rimanendo, perché sogni.
Ma chi è il sognatore?
Chi è il testimone silenzioso del tuo sogno?
Be', forse nella morte avviene qualcosa di simile al sonno. O forse non avviene niente. Ma ti assicuro che mi avvicino a questo appuntamento non come a un incontro con una signora vestita di nero, con una falce che miete, che è sempre stata una visione dell'orrore. Mi avvicino a questo appuntamento di quiete, secondo me, a cuor leggero, come davvero non l'ho mai avuto prima. E forse lo debbo proprio alla combinazione di fatti che ti ho spiegato: quello di avere un po' imparato a morire prima di morire, quello di aver rinunciato ai desideri, e quello di aver succhiato dal terreno sacro dell'India la sensazione che l'India ti dà: che è nata, è morta, è nata e morta tanta gente; e che quest'esperienza del nascere, vivere e morire è quella più comune agli uomini.
Perché il morire ci deve far così paura? E la cosa che hanno fatto tutti! Miliardi e miliardi e miliardi di uomini, gli assiro-babilonesi, gli ottentotti, tutti ci sono passati. E quando tocca a noi, ah! siamo persi.
Ma come?! L'hanno fatto tutti.
Se ci pensi bene, questa è una bella riflessione che molti hanno fatto ovviamente: la terra sulla quale viviamo in verità è un grande cimitero. Un grande, immenso cimitero pieno di tutto quello che è stato. Se scavassimo, troveremmo dovunque ossa ormai ridotte in polvere, resti di vita. Ti immagini i miliardi di miliardi di miliardi di esseri che sono morti su questa terra? Sono tutti lì! Noi camminiamo continuamente su un enorme cimitero. È strano, perché i cimiteri come noi li concepiamo sono luoghi di dolore, di sofferenza, di pianto, circondati da cipressi neri. Mentre in verità il grande cimitero della terra è bellissimo, perché è la natura. Ci crescono sopra i fiori, ci corrono sopra le formiche, gli elefanti.
Ride.
Se la vedi così e torni a far parte di tutto questo, forse quel che resta di te è quella vita indivisibile, quella forza, quella intelligenza a cui puoi mettere una barba e chiamarla Dio, ma che è qualcosa che la nostra mente non riesce a capire e che forse è la grande mente che tiene tutto assieme.
Che cosa tiene tutto assieme?
Allora vado a questo appuntamento – perché tale lo sento e mi dispiacerebbe mancarlo, perché è come se mi fossi già vestito a festa – a cuor leggero e con una certa quasi giornalistica curiosità. Io che ormai ho smesso da tempo di fare del giornalismo sento che ho una curiosità che chiamo giornalistica per sorridere, ma che è la curiosità umana di “Che cos'è questa cosa?”
La si prova nella vita quando muore il padre. Io ricordo che, quando morì il mio, quello che mi colpì era che ora ero in prima fila io. Sai, alla guerra c'è sempre uno che è avanti a te, c'è una prima linea, come nella Prima guerra mondiale, una prima trincea. E morto tuo padre non c'è più quella trincea, tocca a te.
Be', ora tocca proprio a me. E quando io morirò ti sentirai tu in prima trincea. Ma intanto tu sei venuto a tenermi per mano e questo ci dà l'occasione di parlare del viaggio di quel ragazzino, nato in un letto in via Pisana, un quartiere popolare di Firenze, che si ritrova nelle grandi storie del suo tempo – la guerra in Vietnam, la Cina, la caduta dell'impero sovietico – poi va sull'Himalaya, e adesso è qui, in una sua piccola Himalaya, ad aspettare questa ora secondo me piacevole.
Allora questa è la fine, ma è anche l'inizio di una storia che è la mia vita e di cui mi piacerebbe ancora parlare con te per vedere insieme se, tutto sommato, c'è un senso.

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